Sono strani tempi i nostri. Se poi ci si occupa di scienze umane in generale, e di psicologia in particolare, vivere nell’epoca dell’informatica e dei social media ha di per sé delle implicazioni bizzarre. Per un verso è un’epoca particolarmente affascinante: ridiscutere teorie o concetti della psicologia classica alla luce delle nuove tecnologie, e scoprire che il mondo 2.0 non inficia il pensiero dei maestri che abbiamo studiato, dà forza al nostro lavoro (pensiamo al concetto di narcisismo, elaborato da Freud alla fine dell’800 che oggi vive una nuova forma grazie al fenomeno del “selfie”).
Da un altro punto di vista risulta invece a volte destabilizzante dover affrontare una discussione per confutare una teoria (anzi, un’idea) che muove da un principio dell’informatica con la pretesa di applicarlo all’uomo.
Se una volta almeno si procedeva in senso contrario (ricordo il concetto di “intelligenza artificiale” che voleva trasferire ai computer ciò che è una caratteristica unica degli esseri umani), oramai abbiamo superato anche quella fase, ed è l’uomo che cerca di assumere le caratteristiche del computer. Mi riferisco, com’è chiaro dal titolo di questo post, al concetto di multitasking.
Secondo la definizione che si può trovare su Wikipedia, per multitasking si intende
In informatica, un sistema operativo con supporto per il multitasking (multiprocessualità) permette di eseguire più programmi contemporaneamente: se ad esempio viene chiesto al sistema di eseguire contemporaneamente due processi A e B, la CPU eseguirà per qualche istante di tempo il processo A, poi per qualche istante successivo il processo B, poi tornerà a eseguire il processo A e così via.
Sono evidenti i vantaggi che derivano da questa possibilità: nei computer non-multitasking poteva essere eseguito un solo programma per volta. Ciò comportava, ad esempio, il fatto che per passare dall’editor di testo al foglio di calcolo dovevo prima chiudere il primo e poi aprire il secondo, con evidenti perdite di tempo e difficoltà nel far interagire i due programmi.
Oggi tutti i dispositivi che utilizziamo (inclusi cellulari, tablet, ecc.) sono progettati e realizzati per consentire questa possibilità, e i processori sono sempre più potenti e veloci proprio per supportare le maggiori risorse richieste all’hardware per la multiprocessualità.
Quello che non è chiaro però è il passaggio logico che è avvenuto dal computer all’uomo: è quasi come se si fosse diffuso tra la gente un pensiero del tipo:
che bella idea fare due cose contemporaneamente… ma se lo fanno i computer, perché non lo posso fare anch’io?
La risposta in teoria sarebbe semplice (“perché sei un uomo – ancorché stupido, date le domande che ti fai – e non un computer“) ma può essere interessante ragionare su quali siano le conseguenze negative del multitasking umano.
Ciascuno di noi, quando svolge una qualunque attività, lo fa mettendo in gioco una parte della propria personalità, ovviamente quella più adeguata al contesto in cui si trova (utilizzando il linguaggio dell’analisi transazionale definiamo queste componenti della nostra personalità Stati dell’Io)
Ad esempio se vogliamo spiegare una procedura operativa ad un collega, attiveremo la parte più razionale e logica della nostra personalità, lo Stato dell’Io Adulto. Non saranno – giustamente – coinvolti né il nostro lato emozionale né quello affettivo, in quanto non adeguati al contesto specifico in cui ci troviamo: mentre spiego una procedura, mentre leggo un estratto conto, mentre redigo un bilancio, tendenzialmente (fatte le debite eccezioni) non provo emozioni, non provo affetto. Semplicemente ragiono e cerco di risolvere un problema.
Se invece sono seduto sul divano e abbraccio mio figlio di cinque anni in lacrime perchè ha rotto il suo giocattolo preferito, in quel momento sarà attivato il mio Stato dell’Io Genitoriale affettivo, cercando di consolare e di accogliere l’emozione del bambino che ho tra le braccia. La relazione con lui sarà fatta di sussurri, di carezze, di sorrisi, ecc. In tutto questo, com’è ovvio, non c’è nulla di razionale o di logico. Ho davanti la manifestazione di un’emozione e cerco di accoglierla.
I problemi derivanti dalla volontà di “essere multitasking” sorgono dunque non tanto dal cercare di fare due cose contemporaneamente, quanto piuttosto dal cercare di fare contemporaneamente due attività che richiedono l’attivazione di due stati dell’Io diversi tra loro.
Ecco che, ad esempio, scrivere un’email ad un cliente (Stato dell’Io Adulto) mentre si scherza al telefono con il proprio partner (Stato dell’Io Bambino), comporta sicuramente che qualcosa andrà storto: non è possibile attivare due Stati dell’Io contemporaneamente. Di conseguenza o la email avrà un linguaggio poco consono, probabilmente con degli errori grammaticali (i bambini non conoscono la grammatica…) o il mio partner dall’altra parte del telefono si accorgerà che c’è qualcosa che non va: mi sentirà svogliato, non concentrato, con la testa da un’altra parte.
Il fatto è che quando noi interagiamo con gli altri attiviamo, più o meno consapevolmente, uno Stato dell’Io. Questo significa, concretamente, che la nostra energia viene convogliata in quella parte della nostra personalità e, per così dire, è a lei che “affidiamo il comando”. Purtroppo però non è possibile dividere a metà il controllo della nostra personalità, così come il comandante di un esercito deve essere uno solo. Ecco quindi che tutto funziona egregiamente se le attività che vogliamo fare contemporaneamente sono tra loro “coerenti”, mentre si creano dei problemi se devono essere governate da due diversi “generali”, e alla fine uno prevarrà sull’altro.
E’ pur vero che esistono ricerche che affermano la positività del multitasking: un recente studio condotto presso l’Università della Florida ha misurato le performance di persone anziane nell’eseguire alcuni compiti cognitivi mentre pedalavano su una cyclette, e hanno riscontrato un miglioramento nella velocità della pedalata senza che ciò andasse a discapito della prestazione “intellettuale”.
Come è evidente questo studio non contraddice quanto affermato sopra: ripetere una lista di numeri e pedalare non sono attività tra loro incompatibili. Entrambe afferiscono all’area psicologica dell’Adulto, non richiedono in alcun modo l’attivazione delle proprie emozioni.
Propongo a chi legge invece di provare da sé una variante dell’esperimento: prima fatevi preparare da qualcuno una sequenza di numeri e poi provate a sommarli a mente, mentre contemporaneamente raccontate la vostra migliore barzelletta al telefono ad un vostro amico (che naturalmente non deve sapere nulla dell’esperimento e di quanto state facendo). Scommettiamo che o sarete poco divertenti o non riuscirete a sommare più di tre numeri o, più probabilmente, non riuscirete a fare nessuna delle due cose?
Fatemi sapere qui sotto com’è andata…