Non è possibile vivere nell’isolamento continuo: ciascuno di noi ha bisogno di stimoli così come il nostro corpo ha bisogno di cibo. In un romanzo[1] è narrato in modo assai efficace come l’assenza di stimolazione possa essere utilizzata come tecnica d’interrogatorio; ma, oltre alla narrativa, esistono studi accreditati scientificamente che dimostrano come la deprivazione sensoriale possa generare danni neurologici che, col perdurare della situazione, possono diventare permanenti e non più trattabili.
René Spitz[2] osservò questo effetto nei bambini ospedalizzati in situazioni di deprivazione sensoriale (separati dalla persona che si prende cura di loro, madre o altre figure sostitutive), descrivendone in ordine progressivo i comportamenti:
- Primo mese: lamentele
- Secondo mese: pianto e perdita di peso
- Terzo mese: rifiuto del contatto fisico, insonnia, ritardo nello sviluppo motorio, assenza di mimica, perdita continua di peso
- Dopo il terzo mese: cessazione del pianto, letargia.
La conseguenza di questa fame di stimolazione – utilizzando il linguaggio dell’Analisi transazionale[3] chiamiamo questi stimoli segni di riconoscimento o carezze, traduzione dall’inglese stroke – è che buona parte delle nostre azioni sono finalizzate alla loro ricerca.
Certo, nell’età adulta si evolve il nostro palato (non cerchiamo più omogeneizzati ma bistecche) e anche la nostra personalità (non più solo contatto fisico, ma soprattutto parole sguardi, mimica, ecc.), e così anche un banalissimo scambio di saluti la mattina appena usciti di casa con un vicino (“Ciao, come va?” “Bene, grazie. Buona giornata!”) in realtà non è altro che un modo per ottenere qualche segno di riconoscimento. Dopo essersi salutate entrambe le persone se ne vanno con una carezza di più in tasca, contenti di essere stati riconosciuti dal proprio interlocutore: hanno fatto “colazione di carezze”.
Naturalmente questi stimoli non sono tutti uguali: li dividiamo tra positivi o negativi (“ciao!” vs. “vai a quel paese!”) e condizionati o incondizionati, cioè rivolti al fare piuttosto che all’essere (“il tuo arrosto è proprio buono!” vs. “sei un cuoco fantastico!”).
Incrociando le due variabili, otteniamo quattro diverse tipologie di carezze:
- Condizionate positive: “Bravo, hai fatto una bella foto”
- Condizionate negative: “Ha parcheggiato in divieto di sosta, le farò una multa”
- Incondizionate positive: “Sei sempre nel mio cuore, ti voglio bene”
- Incondizionate negative: ”Non ti sopporto, non farti più vedere”.
Tale è l’importanza del riconoscimento sociale che il parallelismo con il cibo è quanto mai calzante: così come la cultura occidentale ha introdotto il junk food (cibo spazzatura), portando molte persone a sviluppare patologie – anche gravi – derivanti da un’alimentazione caratterizzata dal consumo in quantità esagerate di cibo scadente, allo stesso modo la nostra fame di riconoscimento ci porta, se non troviamo carezze positive, a cercare riconoscimenti negativi, junk stroke.
Pensiamo ad esempio al bambino che, apparentemente senza nessun motivo, fa i capricci in modo continuo e ossessivo, fino a quando non riceve uno schiaffo. Non ricevendo attenzioni dai suoi genitori (riconoscimento), istintivamente le cerca nel modo più semplice e immediato, ed effettivamente ne ottiene… però di tipo negativo. Questa dinamica tipica dell’infanzia la vediamo ripetuta anche nell’età adulta.
È evidente, così come per il cibo, che sfamare le nostre necessità di riconoscimento quotidiano non è semplice. Così come al supermercato qualcuno si ritrova alla cassa con il carrello pieno di patatine, merendine e bibite gassate, allo stesso modo sono molti gli errori che si possono compiere nella gestione delle carezze.
Questi errori, o modalità comportamentali, esattamente come gli stili di vita alimentari scorretti, derivano dal nostro background culturale, che condiziona il nostro modo di vivere spesso senza che ce ne rendiamo conto. Frequentemente, nell’attività di coaching (al riguardo prova a consultare un approfondimento a questo collegamento), è necessario focalizzare l’attenzione del cliente su una o più di queste “junk rule”, regole spazzatura: capire cosa facciamo per imparare a fare esattamente il contrario.
Proviamo a vederne alcune.
Non dare carezze positive
Se la metafora alimentare ben si applica alla gestione del riconoscimento sociale, è assai più diffusa, per quanto totalmente sbagliata, quella economica, che ci porta a considerare le carezze come se fossero monete: per molti di noi (senza esserne consapevoli) le carezze sono a somma zero: se te ne do 10, me ne trovo 10 in meno io. In realtà è vero esattamente il contrario.
Pensiamoci: è più probabile ottenere un riconoscimento positivo da qualcuno al quale in precedenza abbiamo dato una carezza o da qualcuno che abbiamo ignorato ostentatamente?
Non chiedere carezze positive
Paura, paura, paura, quanta paura!
- Paura di ammettere le mie debolezze: chiedere a qualcuno un segno di riconoscimento, spesso viene tradotto come confessare un bisogno (e quindi di trovarmi in una situazione di difficoltà), nemmeno fossi un animale che se non nasconde una ferita rischia di essere attaccato più facilmente da un predatore.
- Paura del rifiuto: “se chiedo qualcosa a qualcuno, vuoi vedere che poi magari mi risponde di no?”. Venire a patti con il concetto che “chiedere è lecito, rispondere è cortesia” permetterebbe di adottare dei comportamenti decisamente più produttivi (e non solo per quel che riguarda le carezze); del resto se chiedo, e mi viene risposto di no, cosa ci ho perso? Mal che vada mi ritrovo allo stesso punto di partenza. Se invece la risposta è positiva, un piccolo investimento (una domanda) avrà prodotto un grande risultato (una carezza).
Non accettare carezze positive
- Nella nostra cultura la modestia è incoraggiata come una virtù particolarmente positiva. Questa “virtù”, se portata alle estreme conseguenze, comporta l’incapacità di accettare qualunque riconoscimento ci venga portato oltre un livello meramente formale, e di conseguenza, la necessità di andare a cercare riconoscimenti di altro tipo, per esempio negativi (ricordiamo il principio secondo cui abbiamo bisogno di riconoscimenti: se non ne posso avere di positivi – ad esempio perché li rifiuto – ne cercherò di negativi).
Quante volte, naturalmente per modestia, svalutiamo un complimento indirizzato, ad esempio, a qualcosa che abbiamo fatto, dicendo “non è nulla, cosa vuoi che sia, figurati…”. Ma come: ci siamo dati da fare, ci siamo impegnati, abbiamo fatto del nostro meglio, e quando qualcuno ce lo riconosce tutto quello che sappiamo fare è arrossire, inclinare la testa, fare un sorrisino e dire “non è nulla”?
- Anche la paura (ancora una paura!) di essere ingannati, di essere sedotti, di essere manipolati regna sovrana nella nostra società e ci porta a diffidare di chi, anche genuinamente, ci fa un complimento, cercando sempre nell’altro un secondo fine, naturalmente a nostro danno.
Anche se questo tipo di meccanismo è sempre esistito, il fatto di vivere nella società del marketing certamente non aiuta, ma bisogna imparare a non fare di tutta un’erba un fascio, e distinguere tra ciò che è effettivamente una manipolazione (comportandosi di conseguenza) e una carezza senza secondi fini.
Non rifiutare carezze negative
Quante volte, nella nostra infanzia, abbiamo sentito accompagnare qualcosa che non ci faceva piacere (una punizione, la negazione di una richiesta, l’imposizione di un cibo sgradito, ecc.) dalla mitica frase “è per il tuo bene”? Sembra quasi che per crescere meglio sia necessario qualcuno che ci dia riconoscimenti negativi.
Questa concezione – assai distorta – dell’educazione ce la portiamo dietro anche da adulti, e ci impedisce di respingere critiche e attacchi da persone che ci sono vicine, con il retropensiero che, in fondo, se ce l’hanno detto è per il nostro bene.
Beh, forse sarebbe ora che al nostro bene ci pensassimo da noi, e gli altri al loro…
Non darsi carezze positive
Il senso del dovere, l’attaccamento al lavoro, la dedizione agli altri, l’altruismo, sono tutti valori considerati in modo particolarmente positivo nella nostra società.
Chi potrebbe giudicarci negativamente se…
… cerchiamo sempre di dare una mano agli altri
… in ufficio facciamo sempre gli straordinari
… il weekend facciamo volontariato
… accettiamo di fare i rappresentanti d’istituto nella scuola dei nostri figli
…
Cosa c’è di male in tutto questo? Di per sé nulla: sicuramente gli altri ci giudicheranno positivamente.
Ma attenzione: probabilmente, se attribuiamo troppa importanza al giudizio degli altri facendoli diventare gli unici dispensatori delle nostre carezze, stiamo rinunciando a una fonte di riconoscimento alla quale – probabilmente – non abbiamo nemmeno pensato, noi stessi.
Se si vive nella cultura del dovere è importante, ogni tanto, pensare un po’ anche a sé: “sano egoismo” vuol dire aiutare noi stessi per aiutare meglio gli altri.
[1] Tom Clancy, Il cardinale del Cremlino, Milano, BUR, 1992
[2] René Spitz, Il primo anno di vita del bambino, Firenze, Giunti Editore, 2009
[3] Eric Berne, Analisi transazionale e psicoterapia. Un sistema di psichiatria sociale e individuale, Roma, Astrolabio, 1971