Quando parli stai solo ripetendo ciò che già conosci, ma quando ascolti puoi imparare qualcosa di nuovo.
Questa citazione del Dalai Lama è una delle mie preferite, e sicuramente esprime al meglio l’importanza del concetto di ascolto.
In effetti, se riduciamo la comunicazione ai suoi minimi termini, abbiamo due possibilità tra cui scegliere quando siamo insieme a qualcun altro:
- modalità parola
- modalità ascolto
In altri termini o parliamo al nostro interlocutore – e presumibilmente è lui che ascolta quello che abbiamo da dirgli – o al contrario stiamo zitti e lo ascoltiamo. Naturalmente nella stragrande maggioranza delle situazioni il dialogo tra due persone è una sequenza pressoché ininterrotta di queste due modalità, così che alla fine ciascuno dei due interlocutori si porta a casa qualcosa dell’altro.
Ma funziona proprio così?
Ascolto = silenzio
In realtà c’è un’espressione chiave nella frase precedente che, spesso, inficia questa sequenza logica: il fatto che per ascoltare sia necessario stare zitti.
Naturalmente, se diamo per scontato un minimo livello di buona educazione, è evidente che quando qualcuno ci parla tendenzialmente stiamo in silenzio (in realtà anche su questo banale comportamento ci sarebbe molto da discutere: basti pensare alla tendenza sempre più diffusa – probabilmente originata dai pessimi esempi dei talk show televisivi – di persone che tendono a parlare l’una sull’altra, sovrapponendosi e rendendo impossibile qualsiasi scambio).
In realtà però il silenzio – presupposto dell’ascolto – a cui mi riferisco non è soltanto esterno; in altri termini per ascoltare realmente il nostro interlocutore non basta star zitti con la bocca (non parlare) ma è necessario star zitti con la testa (non pensare).
Infatti ciascuno di noi, anche se mosso dalle migliori intenzioni, nella maggior parte delle situazioni di ascolto tende a interpretare, per così dire in diretta, quanto gli viene detto dal proprio interlocutore. È un po’ come se avessimo la necessità di ricollocare quanto ci viene detto all’interno del nostro mondo, della nostra visione delle cose, paragonandolo o avvicinandolo alle nostre esperienze. Questa operazione, peraltro del tutto naturale, ha diverse motivazioni:
- capire meglio – in realtà illuderci di capire – quello che ci viene detto (“ho bisogno di interpretare quello che l’altro mi racconta”)
- assimilare al nostro mondo un’esperienza di qualcun altro
- prepararci a rispondere a quanto ci viene detto.
In realtà però, così facendo, non ci rendiamo conto che non stiamo più ascoltando il nostro interlocutore, ma noi stessi! Quando un mio amico mi racconta delle sue vacanze in Sardegna, raccontandomi la bellezza delle spiagge che ha visitato, dentro di me è facile che incominci a pensare a quella volta che sono stato in Sardegna, ricordando quello che ho vissuto, visto, sentito, il rumore del mare, il calore del sole…
Chi sto ascoltando in questo momento? il mio amico (e la sua narrazione delle vacanze in Sardegna) o me stesso (e il mio ricordo delle mie vacanze in Sardegna) ?
E se l’attenzione a poco a poco si è spostata dall’altro a me stesso, cosa potrò alla fine portarmi a casa di quanto mi è stato comunicato?
Il vero ascolto: l’ascolto empatico
L’ascolto vero (quello che viene anche chiamato ascolto empatico) richiede al contrario di rimanere in silenzio nel modo più completo possibile:
- con la bocca, ovvero stare zitti!
- con il corpo, ovvero non distrarci con lo sguardo, (es. guardare l’orologio o il telefonino), con le mani (es. giocherellare con una penna), con la postura (es. girandoci di tre quarti senza stare frontalmente davanti al nostro interlocutore), ecc. ecc.
- con la testa (è la cosa più difficile), ovvero rimandare la riflessione su quanto ci viene detto, rimanere aperti al nostro interlocutore, non effettuare valutazioni e non esprimere opinioni. Tutto ciò potrà – se necessario – essere fatto successivamente, in un momento di chiarimento ed approfondimento.
Naturalmente tutto ciò è estremamente faticoso e richiede un impiego di energie notevole (sopratutto per sforzarci di non fare ciò che ci viene naturale fare). Proprio per questo normalmente questa particolare modalità di ascolto viene utilizzata quando il tema oggetto della relazione è particolarmente importante.
Nell’ambito lavorativo in particolare l’ascolto empatico dovrebbe essere uno ferro del mestiere di tutte quelle professioni nelle quali la relazione con il cliente è spesso densa di contenuti importanti per lo svolgimento dell’attività e carica di connotazioni emotive per il cliente: penso ad esempio alle cosiddette professioni d’aiuto (medico, psicologo), e alle professioni di consulenza (avvocati, commercialisti, consulenti in genere).